A osservare da vicino le sfumature delle relazioni umane durante e subito dopo il confinamento da pandemia, sono talmente evidenti e numerosi i cambiamenti che si impongono diversi interrogativi.
Se guardiamo con sguardo psicologico analitico i chiaroscuri dell’anima, con l’attenzione puntata sui “chiari”, oggi più di prima si aprono vie nuove per riflettere sull’umano.
Dopo due mesi mi appare più chiaro che per non poche delle persone con cui dialogo la reclusione, pur con le sue limitazioni, è stata l’occasione per scoprire e sperimentare la relazione con sé stessi, con gli altri, in un modo raramente vissuto prima, in termini di consapevolezza, ma anche di qualità.
Un modo di relazionarsi a sé stessi e agli altri intimo, meno costretto in comportamenti sociali non scelti, paziente, umanamente caldo; ancora, man mano più libero nella gestione del tempo, autenticamente attento agli altri, più umano. Solo tre frasi di persone differenti:
“Ho l’ansia di tornare in ufficio, e anche al tempo libero come lo vivevo,sempre troppo pieno: temo e non voglio ritornare ad essere il carceriere di me stesso”.
“A me mancano la presenza fisica, la prossimità, però noto che questa condizione acuisce la comprensione per le debolezze altrui…la compassione, la misericordia”.
“Ho capito in queste settimane che prima fingevo con gli altri, ora ho capito che quella non era la mia identità e adesso mi domando chi veramente sono”.
Perché, dopo l’iniziale sconcerto, non poche persone si sono scoperte a vivere la relazione con sé stessi, privata della protezione dei comportamenti collettivi che governavano il tempo, con una punta che man mano diventa un oceano di concreto sollievo?
Come mai le stesse persone esprimono un certo timore di tornare alla “vita di prima”?
Le risposte possono essere molteplici, ma al di là delle ineludibili soggettività, lasciandosi guidare dalle parole delle persone, un’ipotesi si fa strada. La cosiddetta “vita di prima” il cui ritorno molti adesso paventano, la vita della società europea del 21esimo secolo col suo tempo veloce sempre pieno di cose da fare, di persone da vedere, di impegni da consumare rapidamente anche nel tempo libero, finisce per annullare ogni distanza e differenza tra sé e le varie situazioni in un eterno fittizio tempo presente. Nelle varie situazioni quotidiane avviene che ci si tuffi rapidamente in un magma nel quale, senza avere il tempo di poterlo percepire, viene appunto a mancare la relazione con ciò che abbiamo di fronte.
Se infatti mancano il tempo e lo spazio minimi per riflessione e ascolto, se non c’è lo spazio tra noi e noi, tra noi e gli altri, tra noi e le situazioni, per dare a tutto un senso, si annulla di conseguenza la possibilità di una scelta libera, cioè fondata sul percepire davvero noi stessi e gli altri nella nostra complessità in ogni singolo contesto.
E questo indebolisce l’individuo, lo rende un guscio fragile, sofferente, assoggettabile.
Nel tempo lento ma paradossalmente “liberato” del confinamento, c’è chi ha compreso che riempire il proprio tempo libero di corsi e viaggi e feste senza pausa significava essere” il carceriere di sé stesso”, e chi scopre una vicinanza con la debolezza comune che lenisce in parte il distanziamento sociale e la manchevolezza delle relazioni online. C’è poi chi vede crollare la propria maschera sociale e si disorienta, ma può finalmente confrontarsi con la propria sofferenza.
Secondo paradosso: la distanza dei corpi, favorendo l’ascolto dei moti dell’anima e, rivelando quanti dei bisogni che credevamo irrinunciabili fossero poco più che carta straccia, sta aiutando molti a ricontattare l’energia vitale profonda, a sentirla pulsare dentro di sé,
a prendersene cura.
Anche tollerare la mancanza struggente delle persone care, la nostalgia dolorosa degli affetti,
e attendere il tempo dell’abbraccio che ricongiunge, richiede un’energia che dobbiamo richiamare dalle profondità della mente. Anche questo permette di sentire la propria identità.
L’interrogativo seguente resta necessariamente aperto e quasi un monito.
Come la psicoterapeuta ha verificato, il confinamento sembra essere stato la cartina di tornasole della malattia delle umane relazioni nel mondo luccicante, funzionante quanto freddo della società occidentale contemporanea. Riusciranno gli individui ad utilizzare questa consapevolezza calda ed emozionale, nutrita di quieto ascolto di sè, per avere la forza di continuare a vivere nel tempo, resistendo alle sirene della frettolosità coatta dell’inautentico, relazioni maggiormente intessute di umana libertà?