Seconda quarantena dell’anno 2020, il giorno prima.
Rientrando a casa dallo studio, mentre i negozi chiudevano uno ad uno nell’atmosfera malinconica della “chiusura lunga”, e i passanti in mascherina avevano l’aria di chi tenta con sforzo di adattarsi alle incertezze di un’epoca confusa, punteggiata di troppe rinunce, una domanda un po’ sinistra si affaccia quasi mio malgrado alla mente.
Se questo oscillare tra semiaperture e chiusure, tra semilibertà e parziali cattività, diventasse una nuova e non più eccezionale condizione di vita dell’imponderabile era che si va aprendo? Come potremmo adattarci?
In questa fase lo studio analitico è abitato, in maniera differente da prima, da emozioni caotiche.
Cupezza, angoscia, paura dell’oggi e del domani si declinano in mille varianti. Ma anche urgenti richieste di dialogo e di aiuto, più intense di ieri e accomunate dalla percezione, in chi per la prima volta decida di affrontare problemi a lungo trascurati, che “è questo il momento”. Un momento collettivamente drammatico, in cui è palese la vulnerabilità di ciascuno, in cui vige una forzata sospensione delle libertà per proteggere la vita di tutti, sembra far emergere in molti,tra quanti non lo avevano ancora fatto, l’intenzione ma anche la necessità di occuparsi delle proprie fragilità. Come se lo smarrimento della perdita di riferimenti trovasse nel dialogo con sé un primo punto: ritrovare un senso, un filo conduttore anche minimo, a partire dalla propria vita poiché il mondo è poco o nulla leggibile.
E così, nelle sedute online come in quelle in presenza, che ormai si alternano quasi con naturalezza(tutti preferiamo la presenza, ma abbiamo imparato a leggere nel volto dell’altro attraverso lo schermo freddo le espressioni e i segnali dell’incontro), il tempo della terapia svuotato di ogni fisicità si fa denso di emozioni e pensieri palpabili, come quasi fisica è l’urgenza di esprimerli.
L’urgenza di di dar voce al malessere di aver smarrito il proprio mondo, privato del contatto sensoriale. Alla nostalgia della spontaneità istintuale,della simpatia di pelle. Nostalgia della scoperta e del contatto con un essere umano nella sua interezza. La mano tesa nel saluto abituale e subito ritirata con pudore.
E i giochi di sguardi che provano a esprimere lo stesso bisogno di vicinanza,i volti sorridenti quando, in sicurezza,la mascherina può abbassarsi e il respiro verso l’altro riesce a osare una ripresa. In questo movimento fortemente teso all’incontro, in cui il bisogno di fiducia e condivisione si fa bruciante, ed entra in rotta di collisione con l’imperativo così innaturale della distanza, della diffidenza, di non avvicinare il corpo dell’altro, esiste qualcosa in grado di sciogliere il nodo del congelamento di bisogni umani tanto essenziali?
Negli sguardi e reazioni dei bambini, più capaci di noi a cavalcare l’onda più ardua cercando il modo per renderla abitabile,t roviamo spunti di risposta.
I bambini arrivano in seduta dopo il primo confinamento talmente felici di non doversi vedere su uno schermo che il sorriso traspare da sotto la mascherina,che non si tolgono mai. Raccontano del ritorno a scuola, ci sono le regole ma è così bello giocare di nuovo insieme. Chiedono, tutti, al termine del primo incontro della fase, con tono speranzoso: “Ma adesso posso tornare qui, vero?”
E si coglie in loro una tale paura di restare soli e distanti dai compagni che si tollera bene anche qualche rinuncia.
Un bimbo ha inventato un rituale: ad ogni fine seduta si abbraccia stretto guardandomi fisso negli occhi,a mo’ di saluto:”Quando tutto questo finirà, dice con un sorriso aperto che indovino sotto la mascherina,la facciamo una bella festa degli abbracci?”
Proviamo a immaginare come sarebbe, una vera festa degli abbracci.
Invitare a casa nostra gli amici ed esprimere la gioia di non dover più essere cauti, abbracciandoli a lungo ogni volta che ne avvertiamo l’esigenza?
Esprimere liberamente desideri ed emozioni, stare vicini a chi vogliamo, danzare insieme? La relazione di vicinanza fisica dà voce alle emozioni, si nutre di esse.
A loro volta la conoscenza, la scoperta, come l’approfondimento della conoscenza hanno bisogno di vicinanza. Chi sta crescendo senza, chi ha imparato che vicini ci si contagia, eppure avverte che di contatto il suo corpo ne ha bisogno, come può compensare questa mancanza?
Il bimbo che si abbraccia perchè non può farlo con l’altro, conosce già il valore dell’attesa. Il potere dell’immaginazione, che sa lenire la mancanza, che si consola e attendendo l’abbraccio sa rendere sopportabile il distacco fisico. Rinunciare, aspettare fiduciosi. Valori antichi, dimenticati.
Sapere che la vicinanza che desideriamo arriverà, prima o poi. Lo sguardo caldo e speranzoso di quel bimbo ce lo ricorda.
Nel frattempo ci parliamo anche con gli sguardi e i nostri bisogni, scoprendosi così simili, si fanno compagnia.