A volte gli sguardi parlano e vibrano assai più delle parole. A saperli leggere riescono a dare voce fin nelle sfumature a emozioni che non trovano espressione verbale.
Questo è particolarmente evidente negli sguardi delle donne che stanno vivendo una forma di violenza, come le incontro nel mio lavoro di analista. Sono persone ferite, impigliate in relazioni tossiche al punto che la loro essenza di persone non è più distinguibile da ciò che hanno subìto.
Ascoltandole sembra che per loro non ci sia altra via che continuare nella passività, che la modalità di relazione che le ha condotte fin qui sia senza alternativa.
Guardiamo da vicino alcune delle sfumature e dei suoni che accomunano le identità ferite.
Lo sguardo grigio opaco ha il colore e il suono di lacrime sempre presenti, ma incapaci di fluire. Lo sguardo spesso fisso, asciutto e muto di emozioni di queste donne dice con forza “io sono colpevole”. “È vero, lui mi ha umiliata anche davanti agli altri, ma sono io che l’ho lasciato fare. Mi ha molestata, ma non sono innocente e non posso esserlo. Mi dicono sei malefica, sei una strega, hanno ragione”. Negli occhi di queste donne un grigio opaco spesso e intangibile mortifica la forza interiore. Qualcosa in loro freme, in una lotta ìmpari tra l’istinto di uscire dall’umiliazione e quello di restare dentro. Accettano il riconoscimento negativo e la colpa come unica possibilità per avere una propria identità.
Le lacrime soffocate e l’energia mortificata alla lunga diventano invisibili, lasciando il posto a un’ansia incessante.
Lo sguardo liquido, color fiume in piena, ha un suono rumoroso e tumultuoso, incapace di posarsi in calma, teso a sopportare tutto, a qualsiasi costo. Si ripete con apparente determinazione:
“Io ho bisogno di lui, non importa cosa fa o dice, ce la posso fare a tollerare la sua freddezza pur di vivere quegli istanti di pace che mi regala. Meglio mortificata che senza di lui, so che non cambierà ma senza non posso stare. Però quando mi umilia o mi ignora sto male, e mi odio per questo”.
È uno sguardo fatto di lacrime mai esauste che sciolgono ogni possibile sentimento di rabbia in una automortificazione senza sosta. Questo tipo di donna si impone di resistere e si sgrida perché una parte di lei a volte non ce la fa.
In queste occasioni, dopo avere allontanato il compagno che la ferisce la donna si scioglie in lacrime senza fine, aspettando in segreto l’unica consolazione nel ritorno di lui. La sua esistenza è un incessante vai e vieni verso un immutato dolore.
Ascoltando le storie senza sbocco di queste donne emotivamente ferite, mi domando come un bisogno vitale come quello di essere riconosciute possa arrivare a stravolgersi in un dolore tanto immobile, e se questa modalità di relazione bloccata possa giungere a trasformarsi.
È un fatto che subìre troppo a lungo sottrae alla mente la capacità immaginativa e di reazione, azzera le emozioni in uno sguardo muto. Impedisce di pensare che esistano altri modi di vivere.
Gli sguardi di queste donne testimoniano che impiegano gran parte delle loro energie, per molto tempo della loro vita, a soffocare la propria energia vitale. Perché accade e che cosa deve cambiare affinché si apra una possibilità? Esiste un meccanismo nella mente di queste persone che le immobilizza nell’essere vittima, e ne esiste un altro, spesso invisibile, che apre a un’esperienza diversa di sé e dell’altro?
Sia lo sguardo opaco che quello tumultuoso raccontano la fortissima spinta, che spesso è radicata nella profondità della mente, a delegare la propria esistenza all’altro. O sto qui o sono sola, e la solitudine è uguale a non valere niente. È preferibile uno sguardo che mi umilia a nessuno sguardo, senza io non esisto.
Mentre ascolto le parole impotenti di queste donne, guidandole nel lento percorso verso una solitudine meno disperata, in queste settimane mi tornano alla mente gli sguardi di Delia, la protagonista dell’intensissimo film “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi. Anche lei in apparenza non sente e non esprime emozioni, mentre subisce violenza psicologica e fisica: sembra talmente abituata ad una relazione di soggezione e violenta (che l’ambiente sociale del tempo conferma come l’unica possibilità per lei) da non riuscire a immaginare alternative.
In questo i suoi sguardi sono molto simili a quelli di tante donne dei nostri giorni.
Sguardi fissi, occhi asciutti, sembrano votati a subire senza reagire. Eppure a un certo punto Delia ha uno scatto. Che cosa deve scattare nella mente di una donna affinché si scuota dalla normalità del soffrire? Delia corre, trova la forza di uscire di casa, piano piano il suo sguardo si fa mobile e luminoso, si apre al sorriso e al mondo. Che cosa ha risvegliato l’istinto di vivere e la forza silenziosa che aveva ceduto al marito in cambio dell’illusione di protezione e di amore?
Domande che vanno incarnate in ogni storia, che richiedono tempo per essere formulate e per trovare risposta: eppure, al di là delle differenze, le storie sono accomunate da qualcosa che alberga nel profondo della mente. Che con un lavoro lento e minuzioso è fondamentale indagare…
Le pazienti dagli sguardi muti e liquidi hanno pianto molto guardando il film: è stato uno dei modi per iniziare a vedersi, a mettere distanza tra sé e sé…Dialogando, a volte una scintilla di vita anima i loro sguardi: il primo passo è raccoglierla insieme.
Paola Terrile
18 Novembre 2023